Avere un figlio quando non si è più giovani

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Ci si sposa sempre più tardi e i bimbi, di conseguenza, arrivano anche dopo i 40 anni. L’impegno psicologico richiesto è stressante, ma la vocazione a essere validi genitori non ha limiti anagrafici.

Non c’è un’età predefinita per trovare la persona giusta, quella con cui trascorrere la vita e costruire una famiglia. Ma se l’incontro avviene quando sono passati un bel po’ di anni dalla giovinezza, il desiderio di un figlio può scontrarsi con il timore di essere “troppo vecchi”: «Ho 49 anni, mia moglie 36. Ci siamo sposati due anni fa e adesso aspettiamo un bambino.

Non nego che la prospettiva di avere quasi settant’anni quando mio figlio farà la patente mi inquieta non poco. Ammesso che la salute mi assista, ce la farò a stare dietro alle sue esigenze? Riuscirò a mantenere un dialogo con lui, nonostante le tante generazioni che ci separano?». La vita media si è allungata, la “terza età” scivola sempre più avanti e le persone, almeno nel ricco occidente, sono assai più in forma di quanto non lo fossero i loro genitori o nonni alla stessa età.

Più in generale, per motivi sociali ed economici – e la poca attenzione della politica verso la famiglia – in Italia l’età media per il primo figlio è attorno a 32 anni per le donne: le mamme giovanissime non sono certo la regola e vale anche per i papà.

Ma oltre un certo limite anagrafico, gli interrogativi possono sorgere. «È sempre più frequente che i figli arrivino in età avanzata e anche che ci siano coppie in cui il coniuge è più grande», conferma Benedetta Comazzi, psicologa del centro polispecialistico Medikern di Milano.

«Una critica che spesso viene mossa a chi sceglie di diventare genitore “tardivamente” è che il desiderio di un figlio vada a soddisfare un bisogno egoistico. In realtà, qualsiasi sia la motivazione iniziale, la nascita e l’accoglienza di un bambino – cioè il diventare genitori – si trasforma necessariamente in una  forma d’amore totale e incondizionato, un gesto di estremo altruismo: perché richiede di dedicarsi completamente e in modo esclusivo alla cura di un altro essere umano che dipende totalmente da noi».

Fatta questa premessa, l’esperta ritiene che «La prima riflessione di chi decide di aprirsi alla vita dovrebbe essere chiedersi se si è in grado di tenere fede a questo impegno e a questo gesto di altruismo estremo: l’arrivo di un figlio richiedere una prestazionalità che non è solo fisica, ma anche psicologica, perché è un evento totalmente destabilizzante.

Nella teoria ericksoniana (messa a punto dallo psicologo e psicoterapeuta Erick Erickson, ndr) del ciclo di vita, ognuno di noi attraversa fasi che corrispondono a età biologiche e ciascuna ha compiti e sfide da affrontare: per i cinquantenni, il compito è la stabilizzazione, mentre la procreazione appartiene biologicamente ai giovani-adulti, i venti-trentenni.

Nel momento in cui si inserisce un compito evolutivo che non appartiene alla fase della vita in cui ci si trova, e che quindi si va a sommare a tutte le prove proprie di quell’età, bisogna essere consci che si dovranno affrontare fattori stressanti, sfide, difficoltà che rendono tutto più complicato». C’è però anche il rovescio ella medaglia: «A 40-50 anni c’è una maggiore stabilità economica e lavorativa, e quindi si può dare più agio e più sicurezza ai figli, con maggiore senso di responsabilità rispetto alle giovani coppie che talvolta mettono al mondo un figlio quando ancora non sono in grado di garantirgli un futuro e magari devono essere aiutati dalla famiglia di origine.

E poi c’è anche una maggiore consapevolezza di sé, della propria identità, si ha più equilibrio personale e quindi ai figli si possono anche garantire più sicurezze psicologiche, emotive, affettive». In conclusione, «Non è che non si possano avere figli a una età matura, anzi. Ma è fondamentale la consapevolezza sulle proprie risorse e su ciò a cui si va incontro, sia in positivo che in negativo, per affrontare con la giusta energia e senza spaventarsi soprattutto per queste ultime».

Per padre Giovanni Calcara, domenicano del convento di Soriano Calabro (Vibo Valentia), «Il fine del matrimonio non sono i figli, ma è vivere la pienezza della comunione dell’uomo e della donna a immagine dell’amore che Cristo ha per la sua chiesa. I figli – “crescete e moltiplicatevi”- sono un modo attraverso il quale la coppia completa questo disegno che Dio ha verso l’uomo.

Sono il frutto dell’amore tra l’uomo e la donna, ma rimangono un dono di Dio, non sono un diritto: la vita è un dono gratuito di Dio che va accettato nel contesto della propria esistenza per il nostro bene e non come motivo di crisi o sofferenza. Poi, un conto è generare, un conto essere padre o madre: se biologicamente possono esserci dei limiti dati dall’età, ciò non vale per quanto riguarda la vocazione a essere padre e madre, a educare nella fede, perché il compito genitoriale è un prolungamento dell’amore con cui Dio si prende cura dell’uomo, e la dimensione educativa è un altro fine del matrimonio.

Un genitore maturo offre il vantaggio di avere una saggezza, un’esperienza e un equilibrio che ai più giovani manca. E se il ragazzo vorrà andare in barca o a giocare a calcetto e i genitori non se la sentono, potrà farlo con i suoi coetanei». 

 

 
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