Termini Imerese: il carnevale a tavola, “u joviri grassu”

4 min read

Rimani sempre aggiornato



CONTENUTO A CURA DI NANDO CIMINO

In ogni festa che si rispetti la gastronomia ha sempre un ruolo di primaria importanza; in cui, soprattutto la tradizione, riveste una parte a dir poco fondamentale. Il carnevale di Termini Imerese, ancora fin nei primi anni del novecento, era scandito dai cosiddetti “quattru ioviri”. Erano i quattro giovedì che precedevano l’ultima domenica e il martedì grasso; ovvero giorni dedicati soprattutto all’arte culinaria. Avevano dei precisi nomi di riferimento ovvero: “U ioviri di cummari”, “U ioviri di parenti”, “U ioviri du zuppiddu” (il diavolo), e per ultimo “U ioviri grassu” detto anche “lardaloru”. Erano giorni in cui il fegato, avesse potuto, avrebbe sicuramente proclamato una astensione dal lavoro. Era infatti una occasione in cui spesso ci si rifaceva delle magre di un intero anno; ed anche famiglie notoriamente povere, davano fondo a tutte le loro risorse pur di non passare “a festa o scuru”. Il piatto tradizionale termitano era costituito dai “maccarruna cu sucu ‘ntà maidda” . La pasta veniva fatta in casa con buona farina locale utilizzando i busi; ovvero delle finissime cannucce di “ddisa” (ampelodesmo) che crescono spontanee nella nostra macchia mediterranea. Poi venivano lasciati per una notte intera a sciariari; e cioè ad asciugare lentamente, appese ad una canna dietro a una finestra socchiusa. Era una pietanza eccellente; i maccarruna infatti, una volta cotti, venivano conditi con ragù di maiale e spesso anche con l’aggiunta di ricotta fresca. Era tradizione, soprattutto fra le famiglie del ceto contadino e popolare, servirla e mangiarla in un unico grande piatto messo al centro del tavolo, oppure ‘ntà maidda; e cioè in quello stesso recipiente di legno che era stato utilizzato per prepararne l’impasto. Era simbolo di unità familiare ma anche un gesto di coesione e di gioia; un momento di condivisione, comunque regolato da una sorta di protocollo gerarchico. Erano infatti gli uomini, allora considerati forza lavoro e spesso unica fonte di reddito della famiglia, che avevano il diritto di iniziare a mangiare per primi. Non sempre le condizioni economiche consentivano la possibilità di un secondo piatto; ma tanti non si facevano mancare anche a cutini cu sarsa e patati (cotenna di maiale con salsa di pomodoro e patate), che era il piatto preferito da chi purtroppo non poteva permettersi di comprare carne. Non mancavano ovviamente ortaggi e frutta di stagione, soprattutto finocchi, carciofi ed arance; che abbondavano nelle nostre campagne e si trovavano a buon mercato. E poi c’era il dolce a cui nessuno rinunziava. Si preparavano per l’occasione fuazzeddi cu zucchiru, oppure a pignulata cu meli e i riavulicchi; ovvero piccole palline ad impasto dolce che, una volta fritte, venivano messe su un capiente piatto e cosparse di miele e codette di zucchero colorate. Ma, così come per la cassata a Pasqua, il re incontrastato del carnevale era in questo caso “u cannolu”; anch’esso fatto in casa. Ricordo personalmente che mia nonna conservava in un cassetto alcune canne opportunamente tagliate a misura che gli servivano per dar forma al dolce e per friggere la scorza; e ricordo pure le sgridate che prendevo, vista la mia ostinazione a voler passare il dito sulla crema per leccarne un po’. Un assaggio di marsala o di rosolio casereccio concludeva il pranzo. Ed a proposito di carnalivari e di cannolo mi piace concludere con questi versi di un anonimo autore dell’ottocento che al tipico dolce siciliano ha voluto dedicare questa ode:

Beddu cannolu di carnalivari
megghiu muccuni o munnu nun c’è,
su biniritti li spisi dinari
ogni cannolu è scettru di rrè.
Vannu li fimmini a disirtari
si a lu disiu iddu nun c’è,
cu nun ci piaci si issi ammazzari
cu nun ni mancia curnutu è !
CONTINUA A LEGGERE SU HIMERALIVE.IT


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright Himeralive.it






Leggi anche

Altri articoli: