Mettere le foto in rete dei figli è un rischio?

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Si chiama sharenting che è l’abitudine di pubblicare immagini della prole sui social media.
L’intenzione è quella di condividerne la crescita con i parenti e li amici, ma…
I figli sono la cosa più bella della vita: e allora perché non mostrarla al mondo, anche
quello virtuale?

Una volta c’erano gli scatti spediti ai nonni lontani, oggi il nuovo modo di raccontare la vita da genitori e quella dei figli sui social media – condividendo foto, video o
post scritti – ha dato origine a una nuova parola: “sharenting” (dall’inglese “to share”, condividere, e “parenting”, l’attività genitoriale).

Non tutti sono d’accordo: c’è chi teme di esporre troppo i bambini, chi abusi di malintenzionati, chi vorrebbe lasciare ai figli il diritto di scegliere se esporsi… Preoccupazioni condivise da esperti e mezzi di comunicazione.
Ma Davide Cino, pedagogista e ricercatore presso l'Università Cattolica di Milano, e cultore della materia in Pedagogia della famiglia all’Università Bicocca, propone una riflessione sul tema scevra da giudizi moralistici e colpevolizzanti nei confronti di madri e padri in un libro uscito per Franco Angeli editore: Sharenting.

I dilemmi della condivisione e la costruzione sociale della “buona genitorialità digitale”. Benché l’oggi ci sembri tanto diverso da ieri, anche nel passato i bambini erano costretti a posare per ore per i ritratti di famiglia. E, qualche decennio fa, anche i nostri nonni contadini quando nel paese arrivava il fotografo ambulante si mettevano in posa con tutta la prole per un imperituro ricordo.
«Nel mio libro cerco di leggere lo sharenting anche in prospettiva storica, per evitare di pensare che certi fenomeni nascano dal nulla e costituiscano novità assolute. I bimbi da sempre sono stati i soggetti più immortalati nel nucleo familiare, tanto che la diffusione delle macchine fotografiche vide un boom di acquisti da proprio parte delle madri. L’orgoglio per i figli e il desiderio di “mostrarli” è qualcosa di antico e molto ordinario».

Oggi però l’audience si è allargata e i possibili fruitori delle immagini possono essere perfetti sconosciuti o, addirittura, individui sgraditi. Tanto più che le immagini restano in Rete per sempre. «Certo, ed è forse l’elemento che più fa sì che lo sharenting sia un fenomeno controverso. Ma è anche la fonte di tanti dei dilemmi digitali che i genitori vivono e che spingono molti a trovare strategie: per esempio, limitando la visione delle foto on line solo a una ristretta e fidata cerchia di persone».

C’è però il diritto dei figli di dire no all’esposizione della loro immagine: «C’è un momento fino al quale a prendere le decisioni per i bambini sono solo gli adulti, in ogni aspetto della vita. Crescendo, iniziano a dire la loro e diventa importante riconoscerne la capacità di essere, per quanto possibile, protagonisti di ciò che li riguarda. Però la “non-scelta” dei bambini fa scalpore quando si parla di sharenting, mentre non si considera per tutti gli altri ambiti in cui prendiamo decisioni per loro. Credo che essendo il bambino un membro attivo del nucleo familiare, la sua voce vada ascoltata sempre».

I rischi paventati dagli esperti sono tanti, ma quelli reali? «Quantificare è difficile, però la retorica comune fa molto leva sui rischi speculativi e
sull’aneddotica, costruendo narrazioni ansiogene in cui sembra che un genitore che pubblica una foto del figlio online lo stia condannando a un certo futuro infausto. Ma come la ricerca su infanzia, famiglie e media testimonia, i rischi – eventi potenziali – non necessariamente si traducono in danni – ovvero fatti concreti e deleteri. Il che non significa che non dobbiamo interrogarci sulla condivisione, ma sarebbe comunque meglio evitare letture moralistiche e assolutiste. Credo invece in un’educazione che promuova occasioni di riflessività, per esempio in gruppi di confronto per le famiglie: evitando di partire dagli elenchi dei rischi e delle cose che i genitori “devono” e “non devono” fare, ma considerando le loro ragioni, i loro dubbi, i dilemmi, il significato che tale pratica ha per loro e la loro famiglia, e più in generale il rapporto con i social media. La riflessività non si raggiunge una volta per tutte, è una prassi continua: su una data pratica io mi interrogo, volta per volta, chiedendomi cosa è più sensato fare per me, i miei figli e la mia famiglia in una situazione, che può naturalmente differire da un’altra».

Per padre Giovanni Calcara, domenicano del convento di Soriano Calabro (Vibo Valentia): «L’ostentazione riguarda ormai tutti gli aspetti della vita, anche gli affetti. Che però non sono conquiste di cui vantarsi: la vita non è un concorso di bellezza. Poi un conto è condividere le foto dei bambini in un gruppo social ristretto – famigliari, amici fidati – un altro metterle in Rete senza filtri. Immagini innocenti o buffe possono ritorcersi contro i ragazzi quando sono adolescenti o adulti o diventare strumento di ricatto da parte di bulli, anche senza arrivare all’utilizzo illecito dei siti pedo-pornografici che, comunque, si alimentano anche con
immagini prese dai social.

Padre Giovanni Calcara

Certo, si possono fare dei distinguo: meno a rischio sono le immagini di una recita, di una performance sportiva, di una festa… eventi con altre persone. In generale, non bisogna dimenticare che i figli non sono “nostri”: lo stesso Gesù, appena dodicenne, nel Vangelo rivendica una propria autonomia dai genitori dai quali addirittura si allontana per giorni, facendoli spaventare moltissimo, ma così “cresce in età,
sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini”. Non bisogna perdere il senso della misura e della prudenza, e appena possibile rendere i bimbi partecipi, senza violentarne la sensibilità: «Mi piace il video di quando hai recitato la poesia o del gol che hai realizzato:
cosa ne dici se lo metto su Facebook?».

 
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