Com’è difficile lavorare dopo la maternità

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Le giovani madri che hanno dovuto rinunciare a un impiego sono penalizzate, un po’ dal senso di colpa e in gran parte dalla società che non fornisce strutture e servizi adeguati

Molte donne – quasi tre su quattro secondo un rapporto di Save the Children – lasciano il lavoro per la fatica di conciliarlo con la cura dei figli. Ma c’è anche chi prova rimettersi in gioco, quando i bambini sono un po’ più grandi, per legittima aspirazione di realizzarsi anche fuori casa o perché uno stipendio non basta. Ricominciare non è semplice, anche a causa di un contesto sociale e culturale che fa ricadere il lavoro di cura innanzitutto sulla donna e non offre servizi sufficienti a sostegno delle famiglie.

 C’è anche il timore di  riproporsi sul mercato del lavoro dopo un periodo di stop e di mancanza di aggiornamento. Per affrontare al meglio una selezione e trovare un impiego in linea con le proprie aspettative, ci sono corsi di formazione: per esempio, Together WeCan, un percorso gratuito di tre mesi, dedicato a mamme disoccupate o maleoccupate con figli fino a 10 anni, realizzato in collaborazione con Piano C, associazione che si occupa di riprogettazione professionale, formazione ed empowermentfemminile, sostenuto nell’ambito della campagna #mammaE di Chicco.

Ma al di là del prepararsi e del riscrivere il curriculum, «Per chi ha lasciato il lavoro per la maternità, la maggiore difficoltà è senz’altro il “senso di colpa” nei confronti del bambino», spiega Nazarena Difrancesco – psicologa e psicoterapeuta di Studio Pandora che collabora con il Chicco Research Center.

«Quando nasce un bambino da un “io” si passa a un “noi”. È normale, anzi, necessaria una prima fase di dipendenza tra mamma e bambino. Poi, però, il bambino comincia a sperimentare le proprie autonomie, e lo farà sempre di più, perché sta crescendo. Ed è qui che molte mamme iniziano a sentire il “senso di colpa”: perché si ha in mente un’immagine di mamma ideale che riesce a gestire tutto, a stare sempre col suo bambino ed entrambi sono sempre sereni e felici. Quando ciò non accade (e nella realtà non può accadere) ecco che scatta il senso di colpa. Ma non ci sono tempi e modi giusti per stare insieme: c’è un tempo e un modo specifico per ogni mamma con il suo bambino.

Ci sta sentirsi in colpa, specialmente nei cambi e nei passaggi nella relazione con i propri figli, sentire fatica, provare dispiacere e la mancanza l’uno dell’altro. Ma col tempo è possibile imparare a conviverci e attraversare questi sentimenti accogliendoli e non negandoli».

E poi c’è il tema del giudizio: «La visione della mamma ideale – che riesce a fare tutto e non ha bisogno di altro se non di stare con il proprio bambino – è spesso presente sia nella testa della mamma che nello sguardo di chi le sta vicino», continua la psicologa.

«Bisognerebbe lavorare sulla consapevolezza che se la donna/mamma è serena, lo sguardo esterno non deve diventare un giudizio così pesante da mettere in crisi le sue scelte, che anzi vanno sostenute, considerando i commenti altrui solo come un altro punto di vista, non certo più valido del proprio e spesso non richiesto».

Altra difficoltà è legata alla gestione familiare e alle preoccupazioni del coniuge. «Il rientro al lavoro incide sulla gestione familiare, inutile convincersi che non cambierà nulla: ma l’importante è condividere i problemi e dividersi i compiti con lui o con chi è vicino. Ogni cambiamento ha un impatto sulla gestione della famiglia: l’arrivo del primo figlio, così come il secondo e il rientro al lavoro. Il punto non è la gestione del singolo avvenimento, ma la resistenza al cambiamento, sulla quale vale la pena lavorare insieme. La soluzione migliore per l’equilibrio familiare è sempre il lavoro di squadra».

Per padre Giovanni Calcara, domenicano del convento di Soriano Calabro (Vibo Valentia), «A parole si proclama la necessità di tutelare la famiglia e si denuncia il calo della natalità, però nella pratica non siamo riusciti a scalfire i deficit di assistenza alla famiglia, nella quale la mamma è chiamata a farsi carico in toto della crescita dei bambini, anche perché in molte zone di Italia mancano asili pubblici.

Padre Giovanni Calcara

La tutela professionale della maternità ha dei limiti temporali oltre i quali la lavoratrice deve decidere se rientrare o no, e se non c’è un aiuto familiare o la possibilità di pagarsi una baby sitter, la donna rinuncia: ma così colpisce la famiglia, togliendole il benessere economico che serve anche per garantire la crescita dei bambini. La maternità è un dono: ma non per la donna, per la famiglia e la società.


E quindi va accolto, tutelato, preservato. Siamo tutti d’accordo sui
principi, ma poi la donna viene lasciata da sola, e tocca per lo più a lei rinunciare al lavoro e non al marito, perché viene sempre vista responsabile dell’opera educativa verso i figli, che però sarebbe compito anche del papà e della famiglia intera. Ci sono scivoli per chi vuole andare in pensione, ma nessuna tutela per la categoria delle mamme che vogliono tornare al lavoro.

La scelta della maternità è al servizio della società, ma la società non si dimostra altrettanto attenta alle esigenze della donna, salvo pretendere che le coppie facciano i figli e si occupino della loro educazione».

 

FOTO: https://www.ciphr.com/
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