Termini Imerese: l’antica tradizione del “Signuruzzu a Cavaddu”

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Approfitto di queste foto dei primissimi anni del novecento, condivise da Carlo Aguglia e Fabio Chiaramonte, per parlarvi di questa antichissima tradizione termitana purtroppo ormai scomparsa. E lo faccio attraverso ciò che riporta il professore Navarra nel suo libro “Termini com’era” che così scrive:

“…U Signiruzzu a cavaddu. Festa popolare che aveva luogo nella Domenica delle Palme. Sceglievano un bambino di cira tre anni, che era nato il 25 dicembre, con i capelli biondi che venivano giù inanellati; gli facevano indossare una veste celeste e dei sandali, e gli cingevano la fronte con un nastro rosso, a mò di diadema.

Poi lo mettevano a cavalcioni su di un asinello infiocchettato di nastri multicolori, e giravano così buona parte della città, mentre il bambino, con la mano alzata, faceva gesti come di benedizione. Quando “u Signiruzzu” era stanco, qualcuno era pronto a sorreggergli la mano che benediva, mentre il gruppo era seguito da un codazzo di ragazzi e di adulti, alcuni dei quali portavano palme e ramoscelli di olivo.

I balconi erano gremitissimi di gente che acclamava, e su richiesta pressante di alcune persone di riguardo, il bambino veniva fatto smontare e condotto nelle loro case, dove veniva abbracciato, baciato e carezzato. Seguivano i doni: (quasi sempre una lira d’argento) dolci ed altri piccoli regali che il padre del festeggiato immetteva in un sacchetto che prudentemente aveva portato con se.

Questa cavalcata durava almeno cinque o sei ore, ed il povero bambino doveva arrivare a casa stanco morto…”

Vien da immaginare perciò quanta bello doveva essere questo momento di religiosità popolare; che, come ci dice il Navarra, durava diverse ore.

E quanto doveva esser suggestivo il passaggio di quel corteo con tutti i balconi gremiti di gente che salutava e applaudiva. Anche questa era la nostra città! Oggi tutto è finito.

E chissà se anche le poche cose ancora rimaste, non seguiranno prima o poi la stessa sorte. Le tradizioni sono il vero tesoro di ogni comunità; e vanno coltivate e non “sacrificate” in nome della modernità.

Perderle significa smarrire anche la propria identità culturale, e recidere quel filo sottile che ci collega al nostro passato e alle nostre origini.

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