DNA e processi penali: scienza definitiva o verità da rivedere?
Francesca Gillani, termitana, trent’anni, ha conseguito la laurea in Scienze Biologiche a Palermo e poi la specializzazione in Biologia forense, a Firenze.
Nel 2023 continua i suoi studi a Roma, con sede presso il policlinico dell’università Tor vergata consegue il titolo di Master in genetica forense, il primo in Italia su questa disciplina.
Grazie alla passione per la genetica e ai suoi studi, si imbatte nella conoscenza di una nuova disciplina, la genealogia genetica. Ad oggi, questa sua passione la porta a collaborare con gli Stati Uniti, dove aiuta a fornire ipotesi di identificazione su casi di adozione e resti umani attraverso l’applicazione di questa nuova disciplina. Oggi svolge Consulenze Tecniche d’Ufficio e Consulenze Tecniche di Parte, nominata perito presso la procura di Termini Imerese.
L’intervista a Francesca Gillani
Dott.ssa Gillani, grazie per essere con noi. In questi giorni si parla molto del DNA nel processo Garlasco. Cosa pensa della riapertura delle analisi genetiche in casi già giudicati?
«Credo che sia un segnale importante. La scienza forense, in particolare la genetica, è in continua evoluzione. Nuove tecniche possono portare a risultati più affidabili o a leggere dati vecchi con occhi nuovi. Riaprire un caso con strumenti aggiornati non significa mettere in discussione la giustizia, ma rafforzarla. Se la scienza può fornire elementi nuovi o più chiari, è un dovere morale e giudiziario ascoltarla».
Nel caso Garlasco, l’attenzione è tornata su tracce di DNA maschile trovate sotto le unghie della vittima. Quanto può essere determinante questo tipo di evidenza?
«Il DNA sotto le unghie è spesso considerato una delle tracce più probanti, perché può indicare contatto diretto e recente con la vittima, ad esempio in una colluttazione. Tuttavia, serve grande cautela: bisogna stabilire il tipo di contatto, la quantità, la qualità del DNA, e se ci sono rischi di contaminazione. Una traccia da sola non basta mai: va analizzata nel contesto del caso».
Ma quanto è affidabile, oggi, un’analisi del DNA?
«Oggi possiamo arrivare a sensibilità elevatissime, anche con quantità minime di materiale genetico, grazie a tecnologie come la Next Generation Sequencing (NGS). Ma maggiore sensibilità significa anche maggiore rischio di interpretazioni errate. Trovare DNA non equivale a colpevolezza: può trattarsi di trasferimento passivo o secondario. L’affidabilità sta nell’intera filiera: raccolta, conservazione, analisi, interpretazione».
Si parla spesso del rischio di “DNA come prova regina”. È davvero così?
«È una definizione fuorviante. Il DNA non è la prova regina, è una prova tra le tante. Potentissima, certo, ma deve essere letta scientificamente, non emotivamente. Pensare che ‘c’è il DNA, quindi è colpevole’ è un errore pericoloso. Occorre invece chiedersi: come ci è finito quel DNA lì? È una traccia primaria, secondaria? C’è congruenza con i fatti noti?»
In questi grandi casi penali, la genetica forense viene spesso “spettacolarizzata”. Cosa ne pensa?
«È vero. L’attenzione mediatica può distorcere il significato della prova genetica. Si tende a semplificare eccessivamente, quando invece ogni caso ha dinamiche complesse. La genetica forense non è CSI: è fatta di dubbi, percentuali, margini di errore, valutazioni critiche. Il rischio è che l’opinione pubblica confonda probabilità scientifica con certezza giudiziaria».

Secondo lei il DNA può davvero ribaltare una sentenza?
«In alcuni casi sì. Non da solo, ma se smentisce un elemento chiave o introduce un nuovo scenario plausibile, può riaprire il dibattito processuale. La scienza, se usata con coscienza, è al servizio della giustizia, non della spettacolarizzazione».
Grazie Dott.ssa Gillani, per averci guidato con chiarezza tra i limiti e le potenzialità della genetica nei processi penali.
«Grazie a voi. La genetica forense non è solo analisi: è anche responsabilità etica, giudiziaria e umana».
