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prova in cui si può essere di sostegno ai giovani senza ostacolarne la voglia
d’indipendenza.
Finite le celebrazioni – meritate – per il raggiunto traguardo della laurea, il figlio o la figlia si
dedicano alla ricerca di un lavoro, inviando curriculum e affrontando i primi colloqui. I
genitori partecipano alle ansie, all’emozione di affrontare domande e raccontarsi, schivare
possibili trabocchetti e dare la migliore impressione. Cosa consigliare loro? È una buona
idea accompagnarli per tranquillizzarli o è meglio che imparino da soli – anche da
eventuali errori – a gestire queste prime occasioni “professionali”?
«Il genitore che
accompagna si attiene a una dinamica – ahimè – molto frequente per la quale madri e padri
tendono a volersi sostituire nei compiti che spettano ai figli», precisa subito Benedetta
Comazzi, psicologa a Milano.
«Con buone intenzioni: alleviare loro lo stress, metterli in
condizione di dimostrare il loro valore, supportarli nelle loro paure. Ma il messaggio che
riceve il ragazzo è “Non preoccuparti, tanto ci siamo sempre noi”. E il fatto di sapere che
c’è una rete, un cuscinetto anche solo emotivo – perché è chiaro che la mamma non può
fare il colloquio al posto suo – dà la sensazione di poter stare sempre nella propria comfort
zone, senza scossoni di sorta. Ciò fa sì che il giovane non riesca a mettersi in gioco, ad
affrontare da solo sfide e ansie legittime, a gestire la paura del confronto o di ricevere un
rifiuto. L’iper-presenza genitoriale, seppur con l’intento di proteggere da qualsiasi
frustrazione e sofferenza, paradossalmente espone a un pericolo: perché fa sì che il figlio
o la figlia non si sperimentino mai nel superamento di quelli che ritengono propri limiti e
che, invece, possono oltrepassare, se solo ci provano, non riuscendo quindi a sviluppare
competenze – con strategie e risorse proprie – per affrontare situazioni di questo tipo, che
saranno sempre più frequenti, soprattutto nel mondo del lavoro. Quindi, meglio lasciarli
andare da soli al colloquio».
Anche perché non si può immaginare che tipo di impressione
possa fare su un selezionatore o un cacciatore di teste un venticinquenne laureato in
astrofisica o giovane con un master in economia aziendale con mamma o babbo seduto in
sala d’attesa… Ma qual è l’atteggiamento giusto di fronte a domande che possono mettere
in difficoltà?
«Bisogna essere sinceri, paga sempre», risponde la psicologa. «Non si ha
esperienza nell’ambito? Non la si può inventare, ma si può spiegare che si ha voglia di
imparare e si possono elencare le proprie risorse che si ritengono utili in quel campo di
lavoro. In genere, quando ci si espone a una valutazione, si tende a pensare di non essere
abbastanza bravi, ma anche in assenza di esperienze specifiche, delle competenze sono
state acquisite nel percorso di studi, con un traguardo raggiunto anche brillantemente:
quindi è impossibile essere del tutto privi di risorse per affrontare il colloquio e la
candidatura per quel lavoro. Il genitore dovrebbe sottolineare questo aspetto, magari
basandosi sulla propria esperienza, com incoraggiamento e motivazione: “Io ce l’ho fatta
giocandomela così, prova a fare altrettanto e puoi farcela anche tu”».
La scelta di un
abbigliamento adeguato – è uno studio di grafica dove conta la creatività? Si tratta di un
lavoro al desk o a contatto col pubblico? Un ambiente formale? – è il segnale che ci si è
informati sull’attività dell’azienda e questa dimostrazione di interesse (e di non aver
mandato curriculum a casaccio) è sempre apprezzata. «Se il giovane è molto timido o
impacciato, il genitore potrebbe dargli un aiuto in più cercando un esperto di
comunicazione (ma anche video, link, libri sul tema) che lo aiutino ad “allenarsi” a parlare
di sé e a sciogliersi per presentarsi nel migliore dei modi».
Per padre Giovanni Calcara, domenicano del convento San Domenico di Palermo, «I
giovani sono condizionati dall’iter scolastico e anche dalla mancanza di un orientamento
serio sul mondo del lavoro, e quindi spesso davvero non sanno come far valere le
capacità guadagnate negli anni di studio. Bisognerebbe aiutarli ad acquisire la
consapevolezza che i propri talenti possono essere valorizzati quando si è se stessi: l’idea
che sia invece indispensabile una conoscenza, una raccomandazione o l’affrontare un
colloquio con superficialità affidandosi alla fortuna o alla faccia tosta, senza nemmeno
conoscere l’ambito in cui opera dell’azienda, espongono al rischio di essere respinti.
Prepararsi è un segno di maturità, anche magari affidandosi a tutor che aiutano a
compilare correttamente il curriculum. È vero che ci sono ambiti professionali in cui
valgono stage ed esperienze sul campo, e il curriculum scolastico non è abbastanza, e il
genitore può dare una mano a trovarli perché il ragazzo possa arricchire la sua
formazione. Ma la premura eccessiva e il condizionamento impediscono la sua crescita e
lo sviluppo della sua personalità: non è facile dire “non accompagnarmi” nemmeno per il
giovane, che dipende economicamente dalla famiglia e, magari, teme di dare un
dispiacere alla madre o al padre se cerca di affrancarsi dalla loro tutela continua. Ma
anche essere scartati in una selezione è un esperienza formativa, che deve indurre a
prepararsi meglio per il prossimo colloquio o a orientare in modo più specifico la propria
candidatura: ogni sconfitta è un misurarsi con i propri limiti e un’occasione per aumentare
le proprie capacità».
Mariateresa Truncellito
In “Maria con te”, n. 44 del 3 novembre
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