La riflessione di Padre Calcara: “Quei fratelli che litigano”

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Sofia ha 12 anni, Gioele 9. Sono fratello e sorella, ma sarebbe più calzante “cane e gatto”: litigiosi fin dalla prima infanzia, quando si rubavano i giocattoli o facevano sceneggiate di gelosia se mamma o papà davano retta all’altro, anche crescendo non sono mai riusciti a trovare un accordo su niente. Incapaci di condividere le cose – dal tablet alla tv – di non darsi sulla voce durante le discussioni, sono arrivati in certi casi anche a farsi dispetti cattivi o allo scontro fisico.

I genitori non sanno come fare per migliorare il loro rapporto: non serve nulla, né sgridate né appelli alla comprensione o al buon senso,– “Tu sei più grande, cerca di capire” o “Tu sei un maschio, dovresti proteggere tua sorella” – che hanno efficacia solo momentanea. «Si pensa che i fratelli debbano andare d’accordo e non debbano litigare a prescindere. Ma non è detto né scontato, e nemmeno fa parte dei loro “compiti”», commenta Benedetta Comazzi, psicologa del centro polispecialistico Medikern di Milano.

«Pur avendo uno stretto legame di sangue, sono comunque due esseri umani che non si conoscono e che molto spesso entrano in relazione partendo da una posizione di gelosia – soprattutto del più grande verso il più piccolo,  visto come più protetto e coccolato – o di invidia del piccolo verso il grande, visto come “il primo” in tutto (a scuola, nello sport, all’oratorio…) e quindi è quasi più normale non andare d’accordo. Questo non vuol dire che dobbiamo rassegnarci ad avere dei figli super-litigiosi, ma che spesso viene problematizzato in modo eccessivo questo rapporto».

In ogni caso, è molto importante non voler andare sempre a cercare il colpevole: «Invece, spesso il padre o la madre quando intervengono per interrompere la discussione chiedono “Chi ha cominciato? Chi ha provocato chi? Chi ha fatto male all’altro?” Ma l’obiettivo del genitore non dovrebbe essere quello di fare il giudice, di stabilire torti e ragioni, punizioni o premi. Ma di mediare, e quindi insegnare ai propri figli come maneggiare una situazione difficoltosa». A volte le situazioni degenerano perché i bambini non sono in grado di gestire la propria emotività: «E quindi la rabbia e la frustrazione, controllabili con fatica anche da noi adulti, sfociano in gesti cattivi: siccome il bambino non riesce a dire “Sono arrabbiato perché tu mi hai rubato il gioco” dà al fratello un pizzicotto», continua la psicologa.

«Non bisogna etichettare un figlio come vittima e uno come carnefice, e comunque anche quest’ultimo va aiutato, consolato, coccolato: se è arrivato a trattare male il fratello non è perché è un bambino cattivo, ma perché ha sbagliato ad agire in un certo modo non sapendo come altro fare. Tocca al genitore insegnare ai figli a verbalizzare le emozioni. È è ridondante dire “Non devi pizzicare tuo fratello”: il bambino lo sa che non deve farlo. Quello che non sa è come esprimere la sua rabbia con un’altra modalità». È vero anche che non sempre bisogna intervenire subito: «Lo scontro tra fratelli molte volte è anche un modo per prendere le misure con l’altro. Quindi a mano che la situazione non degeneri fino a diventare pericolosa, non sempre è necessario mettersi in mezzo. Lasciamo che se la vedano tra loro, per spiegare successivamente come avrebbero dovuto affrontare e risolvere il conflitto». Altro accortezza: «Anche se è difficile, quando si hanno due o più figli si dovrebbe, durante la settimana, dedicare a ciascuno un tempo da “figlio unico”: un momento di esclusività con mamma o papà o un nonno o uno zio in cui si viene riconosciuti nella propria individualità e con le proprie caratteristiche».

Per padre Giovanni Calcara, domenicano del Convento di Soriano Calabro (Vibo Valentia), «I rapporti fra bambini e adolescenti oggi sono più in termini di competizione che di amicizia. A scuola, in palestra, nei giochi elettronici è tutta una sfida all’altro, e non certo una sua valorizzazione.

Padre Giovanni Calcara

Ciò porta a esasperare i rapporti anche con i genitori, che non di rado hanno una preferenza per un figlio o sottolineano di continuo le differenze: lui studia di più, tua sorella nello sport si impegna di più, tu sei il pigro della famiglia e così via. Il paragone continuo fa soccombere la personalità più fragile: non c’è bisogno di arrivare al bullismo, l’apice di questo malessere manifesto per il quale i ragazzi non sono accettati per quello che sono, ma per quello che dovrebbero essere, anche secondo i genitori. Non c’è più la capacità di guardare la persona nei suoi aspetti positivi, riconoscendone i meriti, ma anche aiutandola a colmare le lacune, gli aspetti negativi e i limiti da superare, rispettando però i tempi di maturazione di ognuno. La vita non è una gara, ma è un valorizzare i talenti che ognuno ha. Anche attraverso l’altro, che diventa uno strumento per completare la mia personalità: se c’è un solo computer, invece di fare a gara per usarlo, bisogna insegnare ai figli a giocare insieme ed educare alla soddisfazione che dà quando si aiuta il fratello meno bravo diventare più abile col videogioco o a fare canestro in palestra».

 

 
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