Matrimonio, padre Calcara: “Ma perchè non si sposano?”

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Molti giovani preferiscono la convivenza al matrimonio, ma non sempre questo è un indizio di disimpegno. I genitori possono farli riflettere col dialogo e il buon esempio.

I ragazzi si amano, sono felici e spesso parlano di allargare la famiglia con un bebè. Lavorano entrambi, senza navigare nell’oro, ma con una discreta tranquillità. Ma genitori o nonni non capiscono perché – visto che va tutto bene – preferiscano convivere invece di sposarsi. Una situazione sempre più frequente: secondo l’Istat, nel 2019 sono stati celebrati in Italia 184.088 matrimoni, mentre le libere unioni dal 1999 sono passate da circa 340.000 a 1.370.000, e un nato su tre ha genitori non coniugati.

Commenta Benedetta Comazzi, psicologa presso il centro medico polispecialistico Medikern di Milano. «Ogni fase della vita prevede dei compiti evolutivi, e tra quelli dei giovani-adulti c’è la realizzazione familiare. Tradizionalmente si tende a dare per precostituito il percorso attraverso il quale arrivarci. Oggi però si sta facendo largo un nuovo modo di intendere i propri scopi evolutivi: nessuno, per esempio, ritiene più che un single debba per forza essere condannato all’infelicità».

Ma perché i matrimoni sono tanto calati? «Per tante cause: molti giovani hanno assisitito al divorzio dei genitori, la fatica di emanciparsi, il venir meno della convenzione sociale che imponeva le nozze per avere un figlio… Ma al primo posto metterei la paura di impegnarsi. Il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha parlato di un “amore liquido”, diviso tra il desiderio di emozioni e la paura dei legami. Ma se le emozioni passano, i sentimenti vanno coltivati ogni giorno. E ciò nel lungo termine è difficile, mette alla prova».

Secondo la psicologa, però, ciò non vuol dire necessariamente che chi non si sposa lo fa perché preferisce una scelta più facile: «Considerare la convivenza come de-responsabilizzazione è semplicistico: può essere anche conseguenza della consapevolezza del fatto che non basta sposarsi per essere capaci di investire in un progetto di vita comune, ma che bisogna essere disposti ad assumersi i rischi e le responsabilità di una vita a due. Per molti giovani il matrimonio da rito di passaggio è divenuto rito di conferma: non più precondizione per le tappe seguenti (coabitare, diventare genitori…), ma un valore aggiunto da concedersi solo successivamente, quasi una celebrazione della felicità della famiglia che si è costruita nel frattempo». Più in generale, però, c’è stato un cambio della visione dell’istituzione matrimonio: «Si tende a considerarlo un vincolo contrattuale e si è perso di vista il suo significato intrinseco: solo prendendosi cura dell’altro, con un legame che implica costanza, dedizione, sacrificio – diritti ma anche doveri – possiamo sopravvivere alle insidie della monotonia quotidiana. E gli studi scientifici confermano che i legami conclamati, indissolubili e duraturi sono quelli che ci rendono più felici e forti, perché sono una potente fonte di sicurezza».
Concorda padre Giovanni Calcara, domenicano del convento di Soriano Calabro: «Vero è che spesso siamo noi educatori – genitori, comunità ecclesiale, scuola, società – a non dare il giusto valore e sostegno alla famiglia e quindi ai giovani che si apprestano a costituirla. Se oggi parole come compagno/a, fidanzata/o o marito e moglie hanno lo stesso significato è perché si è smarrita la capacità di coglierne la differenza. Ma è mancata anche la capacità della trasmissione della fede: come far comprendere ai giovani la differenza tra lo stare insieme e l’essere marito e moglie dinnanzi a Dio e alla società? Si distingue tra famiglia tradizionale e famiglia naturale o di fatto: ma la famiglia è una sola, ed è naturale, perché voluta dalla mente di Dio. L’uomo e la donna “saranno una sola carne” (Gn 2,24).

L’amore coniugale riflette quello di Cristo per la sua Chiesa: “Amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato la vita per lei, per renderla santa” (Ef 5,25-26). E ciò presuppone l’indissolubilità, la fedeltà e la fecondità: l’amore è per sempre, non ha scadenze e non dura, finchè “mi piace”. La fedeltà significa che io accolgo l’altro come dono di Dio per la mia salvezza eterna. Non è corretto sostenere che il primo fine del matrimonio sia la procreazione, ma è il vivere la fedeltà e la fecondità dell’amore di Dio: la procreazione così ne è una naturale conseguenza. Attenzione però al rischio contrario, ai giovani che si sposano in Chiesa per far contenti i genitori: se la grazia del matrimonio non viene colta, il rischio di fallimento è molto alto. E allora nella dimensione di approccio all’altro, di verifica se l’altro è davvero è il dono di Dio per la mia eternità, la convivenza può essere propedeutica al matrimonio, ma con un’adeguata consapevolezza e, delle specifiche tappe di verifica. Nel matrimonio si viene posti dinanzi a una responsabilità che non va vista come limite, ma come ricerca del bene dell’altro. Solo così la famiglia vive la sua identità di “piccola chiesa domestica”, essendo per sua vocazione “sacramento-comunione-carità” perché vive la fedeltà nei confronti dell’amore di Dio e dell’altro».

Contenuto a cura di Mariateresa Truncellito

Settimanale “Maria con Te”, n. 11 14 marzo 2021
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